Accesso abusivo al sistema informatico: è responsabile non sol quel che vi accede, ma anche quel che vi si mantiene

Accesso abusivo al sistema informatico: è responsabile non sol quel che vi accede, ma anche quel che vi si mantiene
25 Novembre 2019: Accesso abusivo al sistema informatico: è responsabile non sol quel che vi accede, ma anche quel che vi si mantiene 25 Novembre 2019

Con la sentenza n. 34141/2019, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di accesso abusivo al sistema informatico. 

Nel caso di specie, un soggetto era stato tratto a giudizio per rispondere dei reati di accesso abusivo al sistema informatico (art. 615 ter c.p.) e di violazione di corrispondenza (art. 616, commi 1 e 3 c.p.), per aver preso cognizione delle comunicazioni "in chat" avvenute sul profilo Skype della moglie ed averle successivamente rivelate, senza giusta causa, mediante deposito della loro stampa nel procedimento civile di separazione.

A seguito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Monza aveva assolto l’imputato dal reato sub a), perché egli non era acceduto abusivamente al profilo Skype, ma aveva trovato casualmente la chat aperta, e dal reato sub b), in quanto l’imputato non aveva deciso di divulgare indiscriminatamente le conversazioni rinvenute, ma ne aveva limitato la diffusione al solo ambito della causa di separazione. 

La moglie, costituita parte civile nel predetto procedimento, aveva impugnato la sentenza di assoluzione avanti la Corte di appello di Milano, che tuttavia aveva confermato la pronuncia del Giudice di prime cure.

La parte civile, quindi, aveva proposto ricorso per cassazione.

In particolare, con il primo motivo la moglie lamentava, tra le altre, l’erronea applicazione dell'art. 615 ter c.p.. 

Secondo la tesi della ricorrente, infatti, la norma incriminatrice punirebbe non solo chi accede abusivamente ad un sistema informatico, ma anche chi, senza esservi entrato abusivamente, vi si mantiene contro la volontà del titolare.

Pertanto, il fatto che, nel caso di specie, il computer della ricorrente fosse già aperto sul suo profilo Skype e che si trovasse collocato nella stanza da pranzo (ossia in un luogo comune) avrebbe costituito una circostanza del tutto inconferente, essendo rilevante solo il dato che l'imputato vi si fosse pacificamente trattenuto, leggendo e stampando pagine e pagine di conversazioni, pur sapendo di non essere autorizzato a farlo ed anzi nella piena consapevolezza della contraria volontà della moglie. 

La ricorrente, poi, denunciava l’erronea applicazione dell'art. 616, comma 2 c.p., affermando che il deposito della corrispondenza nel giudizio civile sarebbe stata ritenuta erroneamente “giusta causa”, posto che questo non era l'unico mezzo a disposizione dell'imputato per esercitare il proprio diritto di difesa nel giudizio di separazione, “essendo a tal fine sufficiente scattare con il proprio telefonino dall'esterno una fotografia della schermata, senza introdursi abusivamente nel programma e ivi trattenersi, o comunque potendo rivolgersi subito all'autorità giudiziaria con un'istanza di acquisizione ai sensi dell'art. 609-sexies c.p.c. e art. 670, n. 2 c.p.c.”.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della moglie, affermando che, con riferimento al primo motivo di censura, il vizio denunciato risulta sussistente, poiché “l'argomentazione dei giudici di merito risulta fondata su una lettura della fattispecie incriminatrice dalla quale viene, in buona sostanza, amputata la condotta di illecito mantenimento, che può perfezionarsi anche in presenza di una casuale iniziale introduzione nel sistema informatico (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011 - dep. 2012, Casani; conf. Sez. U, n. 17325 del 26/03/2015, Rocco)”, come sarebbe nel caso di specie, ove l’imputato ha affermato di aver “trovato causalmente la chat "aperta", urtando casualmente nella sala il tavolo sul quale si trovava il computer portatile della persona offesa, il che aveva fatto comparire sul monitor le conversazioni delle chat, il quanto il computer era già aperto su Skype”.

I Giudici di Piazza Cavour hanno poi accolto anche il secondo motivo di censura (ritenendo assorbito il terzo), affermando che “la nozione di "giusta causa" ex art. 616 c.p., comma 2, viene delineata dal giudice di appello in termini del tutto astrattizzanti in quanto correlati esclusivamente allo scopo perseguito (l'utilizzazione nel giudizio civile di separazione tra i coniugi) e, simmetricamente, privi di qualsiasi valutazione in ordine al "mezzo" attraverso il quale la corrispondenza telematica era stata conosciuta: sotto questo profilo, il vizio rilevato in relazione al capo concernente l'accesso abusivo al sistema informatico si riflette anche sulla valutazione in merito alla "giusta causa", sicché anche per questa parte la sentenza impugnata deve essere annullata”. 

Pertanto, in tema di reati contro la libertà individuale, integra il delitto previsto dall'art. 615 ter c.p. colui che acceda abusivamente ovvero si mantenga (anche in presenza di una casuale iniziale introduzione) in un sistema informatico protetto, rimanendo irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso e/o la permanenza nel sistema stesso.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata.

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